ciclo di incontri - Ottobre 1999
Quaderno n. 78
Leggiamo la Scrittura. Genesi e Esodo
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«Il mio arco pongo sulle nubi» (Gen 9,13)
Creazione e peccato in Genesi 1-11


Giacomo Facchinetti

Nella Bibbia il tema della fondazione dell’universo viene presentato non tramite un solo racconto, ma attraverso un pluralismo di discorsi e di rappresentazioni che hanno un tema comune: il mondo e la sua fondazione, l’umanità e la sua origine. Questo pluralismo è chiaro indice del fatto che di un evento particolare e complesso non è possibile formulare un’unica rappresentazione. Se esistono più racconti, differenti tra loro ma non contraddittori, di una differenza - direi - convergente e complementare, è perché l’evento di cui si parla è così ricco e profondo che non può bastare un unico modello per rappresentarlo, un unico racconto per esplicitarne la profondità e l’eccesso di significati e di verità. Tali discorsi, però, anche se appaiono scritti in maniera lineare, sono di fatto lacunosi e la loro rappresentazione è incompleta.

Prendiamo, per esempio, l’inizio: Nel principio Dio creò i cieli e la terra. La terra era informe e vuota, le tenebre coprivano la faccia dell'abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque. Dio disse: «Sia luce!» E luce fu. (Gen. 1,1-3).

Sebbene sembri scorrevole, il racconto presenta enormi vuoti. La prima affermazione, molto sintetica, è di fatto un titolo: c’è un soggetto (Dio), poi un’azione, unica ed esclusivamente divina (creò), dal momento che il verbo ebraico barah («creare») è utilizzato solo in riferimento a Dio e alla sua azione, e infine l’indicazione della totalità (i cieli e la terra). Successivamente compaiono altri elementi (le tenebre, lo Spirito di Dio, l’abisso), i quali vengono presentati come parte integrante della rappresentazione del mondo e della sua formazione, intesa come passaggio dal kaos al kosmos, cioè da uno stato inospitale e invivibile per le persone ad una realtà ordinata capace di ospitare la storia e l’avventura umana; al tempo stesso, però, non ci viene rivelata l’origine e la natura di questi elementi importanti.

Pluralismo, dunque, per comunicare da punti di vista differenti e complementari, ma anche l’accettazione di convivere con un’ignoranza, non marginale, che riguarda elementi strutturali che si riferiscono alla rappresentazione del mondo e alla sua formazione.

1. Quando si parla di fondazione del mondo e di formazione dell’umanità, ci si trova di fronte ad una prospettiva secondo la quale il tutto non viene semplicemente messo in relazione con una divinità generica, ma con un Dio unico, concepito e rappresentato in modo personale, trascendente, libero e cosciente. L’evento pertanto viene raccontato da una prospettiva che possiamo definire, in senso stretto, monoteista. Non è possibile affrontare qui il problema storico dell’emergenza e della formazione del monoteismo nella storia d’Israele, se cioè esso sia stato un elemento originario dell’esperienza degli israeliti raccolti intorno a Mosè oppure il frutto di una lunga e complessa battaglia in favore di una vera concezione di Dio che ha come protagonisti i profeti; resta comunque il fatto che il testo, nella sua forma attuale, pone questo tipo di relazione. Non semplicemente dunque una lettura religiosa, una narrazione in cui la realtà così come noi la sperimentiamo è genericamente in relazione con il divino, ma un racconto in cui la realtà che noi siamo è messa specificamente in relazione con un Dio unico, trascendente, libero e cosciente.

Si tratta di un elemento decisivo per le sue implicazioni antropologiche, perché, in conseguenza di ciò, l’essere umano non avrà a che fare semplicemente con una realtà luminosa, temibile, inquietante, impersonale, una realtà che potrebbe essere soltanto la personificazione dell’universo e della totalità nel suo insieme, ma sarà costituito in una relazione personale, libera e cosciente. Affermare che gli esseri umani sono fatti a immagine e somiglianza di Dio significa dire che l’immagine di Dio determina l’identità della persona umana. Per questo motivo l’immagine che emerge da questi testi è decisiva per la comprensione dell’essere umano, del suo sé, della sua verità, della sua avventura nel tempo e nello spazio.

Tale prospettiva ha delle conseguenze anche per quanto riguarda la comprensione del mondo, dell’universo nella sua struttura e nella sua materialità: un mondo presentato nella sua distinzione da Dio, nella differenza. La divinità è Dio unico e trascendente, che non può essere in nessun modo né ridotto né confuso né equiparato al mondo o all’universo, pur nelle sue straordinarie dimensioni o bellezze. Pertanto, l’affermazione della trascendenza di Dio ha come effetto di evitare la divinizzazione del mondo, di presentarlo come realtà buona e positiva, di una bontà che non nasce da una mera prospettiva utilitaristica (è buono perché è utile all’uomo), dal momento che il giudizio sul valore e sulla bontà è formulato da Dio. In questa visione il discorso sul mondo evita le due grandi tentazioni della divinizzazione e della demonizzazione: il mondo non è né divinizzato né demonizzato, bensì benedetto. Dio dice bene del mondo come opera sua e lo affida come opera buona alla responsabilità, alla libertà e all’azione dell’umanità.

Un altro elemento importante è la diversità dei modelli che vengono utilizzati per rappresentare l’azione di Dio nei confronti dell’universo, inteso sia come il popolo d’Israele, la sua storia, la sua cultura e letteratura, sia come i popoli circostanti con le loro storie e le loro culture. Nell'area semitica si possono individuare cinque modi di raccontare l’origine dell’universo.

a)    Il primo, affermatosi soprattutto in Egitto, è il modello dell’autoformazione o autogenerazione: la realtà e il mondo si autogenerano e sembra che al loro interno si generi anche la divinità.

b)   Il secondo è il modello bellico: il mondo si spiega a partire da una guerra che oppone soggetti divini (la teomachia).

c)    Il terzo è il modello sessuale: la realtà è il frutto della generazione, che, a sua volta, è frutto della unione sessuale tra il grande dio padre e la grande dea madre.

d)   Il quarto è il modello del lavoro: la realtà viene formata.

e)    Il quinto è il modello della parola: la creazione è un'operazione verbale.

Se nel racconto biblico fosse stato valorizzato il modello bellico, la conseguenza sarebbe stata una divinizzazione della guerra, intesa come punto di partenza della cultura e della realtà umana; se fosse stato privilegiato il modello sessuale, l’atto sessuale avrebbe invaso e dominato la realtà.

I modelli utilizzati nel libro della Genesi sono, invece, quelli del lavoro e della parola. Il “fare” di Dio è motivo ricorrente. L’azione divina è paragonata a quella del vasaio che modella la creta, la polvere più fine in forma d’uomo e insuffla in essa lo spirito che la fa divenire un essere vivente; la medesima azione è fatta con tutti gli altri esseri che popolano il mondo e le grandi strutture che lo compongono.

Se partiamo da quello che accade tra gli uomini, soprattutto per quanto riguarda la creazione artistica, vediamo che c’è una produzione, o meglio, una trasformazione della materia, trasformazione che nasce da un atto umanissimo fatto di intelligenza, di intuizione, di attenzione, di volontà di trasferire nella materia la propria capacità creatrice, il proprio senso estetico. Il fare di Dio è presentato come un fare ordinato, una costruzione minuziosa, che assegna ad ogni elemento della struttura il suo tempo, il suo luogo e la sua particolare funzione, ed è caratterizzato dall’efficacia e dalla razionalità che rendono possibile la vita.

Ma anche il fare di Dio è subordinato alla parola  (il settimo giorno Dio riposa). Non ci troviamo, dunque, di fronte ad una assolutizzazione del lavoro: il lavoro non è tutto, perché il tempo stabilito da Dio e offerto all’uomo è un tempo caratterizzato dall’alternanza tra azione e contemplazione, lavoro e riposo. C’è allora la valorizzazione del lavoro, ma anche la sottomissione ad un fine che è la sua cessazione, una cessazione che, lungi dal denotare disprezzo o rifiuto dell’attività lavorativa, indica la necessità di trovare il tempo per contemplare e godere realmente e profondamente dei frutti del proprio lavoro.

Il modello fondamentale è, dunque, quello della parola: la parola è efficace perché dalla parola nasce l’essere  (Dio disse: «Sia luce!» E luce fu); la parola che fa essere può essere definita una delle manifestazioni più personali e dovrebbe essere cosciente e libera. La parola esprime l’interiorità della persona che parla, rende manifesto il mondo interiore, il mistero o l’enigma del soggetto parlante.

La categoria fondamentale utilizzata nel libro della Genesi è proprio quella della parola. Secoli prima di noi, i maestri ebrei, amorevolmente attenti al testo, avevano notato come nel primo capitolo ricorra dieci volte l’espressione «Dio disse», una scelta sicuramente intenzionale; le dieci grandi parole che fondano l’ordine del mondo rimandano alle dieci parole che fondano l’ordine morale – il mondo è stato fatto con dieci grandi parole e dieci parole sono state date ad Israele per vivere nella via della verità, nella via di una umanità liberata (Esodo 20).

Dunque centralità della parola in relazione all’essere. Osservata nella sua prima formulazione  (E Dio disse «Luce» e luce fu. E Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre. E chiamò la luce «giorno» e le tenebre «notte». E fu sera e fu mattina: 1,3-5), questa parola contiene i seguenti valori: la parola che fa essere, la distinzione fra luce e tenebre, la nominazione. Ecco le categorie fondamentali per pensare e per costruire una relazione con il mondo che sia modellata sulla relazione originaria di Dio con la realtà stessa. La parola che fa essere, che valorizza e accoglie la differenza come qualcosa di significativo, la ricerca e l’individuazione del senso della realtà.

La scelta dei due modelli lavoro-parola, tutt’altro che casuale, implica intenzionalmente un rifiuto e una critica implicita dei modelli alternativi. Ci sono frammenti in cui si può constatare che, per esempio, il modello militare era qualche volta utilizzato anche all’interno della comunità d’Israele (tema della vittoria militare di Dio, la lotta originaria tra Dio e il Leviatano o il drago delle origini…), ma più per motivi estetici che ideali. Si fonda così una società i cui due grandi pilastri, i due grandi modelli della comunicazione sono la parola e il lavoro con le caratteristiche descritte e rappresentate nei capp. 1-2.

All’interno di questa impostazione, un ruolo di primato e di centralità è assegnato all’umanità. Primato, perché nel cap. 1 l’essere umano, pur rappresentandone il vertice, non è il fine ultimo dell’opera di Dio, visto che il compimento è, di per sé, il sabato; nel cap. 2 si evidenzia invece la centralità dell’essere umano in quanto egli rappresenta la prima delle opere di Dio, mentre il resto viene costruito intorno all’uomo (E Dio disse «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza. E domini sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, su tutte le bestie selvatiche»: 1,26). Il punto di partenza di questo discorso intorno all’origine dell’uomo, all’emergenza del fenomeno umano, è il discorso di Dio che possiamo immaginare come una specie di dialogo interiore: Dio parla con gli esseri della corte celeste, presupposti o preimmaginati, quasi si trattasse di un Consiglio divino. Certamente esiste una rottura, un modo di raccontare unico perché utilizzato solo in relazione all’origine dell’uomo; un modo sicuramente letterario di far emergere la posizione particolare e la relazione unica e particolare tra Dio e l’umanità.

L’uomo viene rappresentato come il frutto di questa particolare e cosciente relazione con Dio: a propria immagine e somiglianza. Tale espressione si ritrova anche nel cap. 5, laddove, costruendo la prima genealogia, si ricorda la relazione tra Adamo e il figlio suo (Adamo generò un figlio a propria immagine: v. 3): il linguaggio fa pensare che il termine immagine equivalga a parentela, per cui l’umanità è in relazione filiale con Dio il Creatore. Ciò non toglie che, in riferimento ai modelli culturali del tempo, si possa svolgere anche una lettura politica: vi era infatti l’abitudine di segnare l’appartenenza di un territorio ad un determinato sovrano collocando in quel territorio un’immagine del sovrano stesso.

Si sottolinea, in questo modo, la relazione personale, per cui il rapporto tra Dio e l’umanità deve essere pensato sul modello del rapporto padre-figlio. Inoltre il rapporto Dio-uomo-mondo può essere rappresentato sul modello del rappresentante: l’uomo è colui che deve rappresentare Dio nell’universo, che deve essere l’immagine di Dio all’interno dell’universo creato da Dio.

Il compito originario affidato all’umanità è quello di essere custode della vita nella sua forma più alta, cioè la vita umana (Dio li benedisse; e Dio disse loro: «siate fecondi e moltiplicatevi»: 1,28); lungi dal propagandare e giustificare una crescita illimitata e incosciente, questa espressione, per tanti aspetti ambigua, fragile e problematica, ha lo scopo di dimostrare che il primo dovere dell’uomo è di essere custode dell’uomo stesso, cioè di amare la vita dell’uomo in quanto espressione più alta dell’opera di Dio. La fragilità umana implica la morte, mentre la sua ambiguità deriva dall’essere fatto a somiglianza di Dio, con il rischio di abusarne cercando di sostituirsi a Dio, trascinando o contaminando con propria caduta la realtà intera. Se, dunque, il vertice dell’opera di Dio è “fare l’uomo”, anche il vertice dell’opera dell’uomo potrebbe essere proprio “fare l’uomo”.

Il passo ulteriore è quello di «riempire» la terra e di «dominare» sugli animali (riempite la terra, rendetevela soggetta, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sopra ogni animale che si muove sulla terra: 1,28). I termini impiegati richiamano, senza possibilità di equivoci, la superiorità e il dominio dell’uomo. È importante, a questo proposito, definire la natura del dominio, il quale non deve giustificare il dispotismo o il potere indiscriminato, amorale o immorale. Per comprendere meglio, ci si può rifare all’idea che nel popolo d’Israele si aveva della regalità, secondo la quale la funzione del re è di utilizzare il proprio potere per essere il custode, il patrono delle persone che gli sono affidate, soprattutto di quelle che non hanno i mezzi per affermarsi e per difendere il proprio diritto di vivere nella dignità umana (Salmo 72); oppure si può pensare all’immagine che associa il re al pastore, il quale deve aver cura delle pecore (Ezechiele) e non utilizzare il potere come sfruttamento o parassitismo (Samuele). Non a caso Mosè utilizza l’immagine del regno di Dio in cui Dio è proclamato re perché ha usato la propria potenza per restituire alle vittime del genocidio d’Egitto il diritto di vivere con dignità e speranza (Con la grandezza della tua maestà, tu rovesci i tuoi avversari: Esodo 15,7).

E’ in questa accezione, dunque, che dobbiamo considerare la dignità e la superiorità dell’essere umano nei confronti degli altri esseri viventi: la  responsabilità su cui si fonda il suo compito nella storia deriva da fatto di essere a immagine di Dio.

Ciò viene espresso anche dalla parola sul regime alimentare originario, che si desume fosse vegetariano (Ecco, io vi do ogni erba che fa seme sulla superficie di tutta la terra, e ogni albero fruttifero che fa seme; questo vi servirà di nutrimento: 1,29); ovviamente, in un testo come questo, non si tratta di stabilire una norma per il presente, ma di suggerire una caratteristica della convivenza tra gli esseri viventi secondo il progetto originario di Dio che conserva la sua validità, anche se è stato ferito e messo in discussione dalla violenza che nasce dal cuore dell’uomo.

Il modo in cui l’umanità è chiamata a riempire la terra e ad esercitare il proprio dominio su di essa è certamente non violento: l’essere umano non deve usare la violenza neppure per soddisfare i bisogni elementari e alimentari.

La precedenza letteraria del secondo racconto, anch’essa intenzionale, descrive come l’uomo sia impastato della stessa polvere degli animali; qui vi è un’attenzione maggiore a sottolineare l’animalità dell’uomo, come anche la sua differenza, poiché l’uomo è l’unico a ricevere il soffio di Dio che lo costituisce persona capace di relazione e collaborazione con Lui.

La categoria originaria è dunque quella dell’immagine e somiglianza con Dio; questa è la prima parola, la parola originaria che non abbandonerà mai l’esistenza e l’avventura umana, perché non è mai revocata essendo un dono di Dio e, come tale, irrevocabile.

2. Accanto a questa realtà, però, ce n’è un’altra, non luminosa ma negativa: il peccato. Queste due realtà non possono essere poste sullo stesso piano; sono raccontate insieme, sono intrecciate, ma non hanno la stessa forza e non possono essere considerate in modo equivalente.

Certamente l’aspetto oscuro, l’aspetto fallimentare del peccato è parte integrante di questa grande meditazione sulla fondazione dell’universo e della formazione dell’uomo e non si può parlare di un solo peccato, ma di vari peccati: il peccato di Adamo ed Eva, il peccato di Caino, che si prolunga in quello di Lamec (4,23-24) e che, a sua volta, si estende al peccato di tutta l’umanità violenta, il peccato del figlio di Noè, il peccato degli uomini nella loro totalità contenuto nel racconto della Torre di Babele.

Raccontare le origini del mondo è avere coscienza che l’aspetto negativo e tenebroso dell’esperienza umana ha molti aspetti che meritano di essere presi in considerazione.

a) Il primo peccato che analizziamo è quello di Adamo ed Eva, peccato che deriva dal proposito di divenire simili a Dio: è una tentazione di autodivinizzazione. A questo riguardo, la tentazione fa leva su una realtà presente, sul dono reale di Dio, poiché l’umanità è stata creata a sua immagine e somiglianza e su queste basi è possibile coltivare il desiderio o il sogno di essere come lui.

Nella tradizione dei Padri greci lo si tratta come un peccato di impazienza: l’uomo ha voluto decidere da se stesso quali sono i tempi e i modi per realizzare la propria identità; per i Padri latini invece il peccato di Adamo è soprattutto un peccato di orgoglio, in quanto volontà di sostituirsi a Dio. In ogni caso, la tentazione fa leva su qualcosa che appartiene veramente all’uomo e alla sua storia, a un valore che può portare il peso di un ideale o può essere generatore di un sogno e, insieme a questo, la promessa dell’immortalità e della conoscenza del bene e del male.

Il peccato si fonda, allora, su una forma di diffidenza profonda e radicale; il tentatore suggerisce la proibizione di Dio per certe cose, l’esclusione deliberata da certe situazioni per impedire la realizzazione e la pienezza dell’uomo. Ecco qui instillato il sospetto nei confronti di Dio, che non appare più come il Padre, ma come qualcuno che, vedendo nell’uomo un rivale e avendone paura, lo vuole escludere dal godimento del beneficio. L’immagine di Dio viene allora deformata: Dio è visto come colui che dà molto, ma un molto qualitativamente e volutamente ridotto, che fa finta di dare tutto ma che poi trattiene per sé la cosa più preziosa. E quando Adamo ed Eva si lasciano tentare, rimangono vittime e prigionieri di questa nuova  immagine che hanno accolto ed elaborato per cui Dio diventa sospettabile e non più credibile.

Si potrebbe anche aggiungere che il peccato originario è una forma di ateismo, perché ha a che fare con la questione di Dio, verte direttamente sul modo di pensare e rappresentare il mistero di Dio e opera la sua trasformazione radicale. Partendo da questa trasformazione, l’essere umano diventa vittima della propria immaginazione, nasce la paura di Dio che diventa il padrone che giudica e punisce le azioni. In qualche modo Dio si sdoppia, diventa insieme padre e giudice, con le inevitabili tensioni e conflitti tra questi due ruoli.

b) L’altro grande racconto di peccato è contenuto nel cap. 4: l’episodio di Caino e Abele non mette in discussione l’immagine del volto di Dio, ma l’immagine del volto dell’altro, dell’altro da me.

Ci si trova di fronte a due fratelli, diversi per età, professione e per il tipo di rapporto con Dio; il testo non dice niente di più e ciò ha dato origine a vari tentativi di spiegare e, quasi, di giustificare questo diverso atteggiamento: Caino non accetta la bontà e la generosità di Dio verso il fratello, forse sostenuto da una concezione dell’uguaglianza per cui il padre o la madre dovrebbero dare non secondo il bisogno di ciascuno, ma in parti uguali.

Abbiamo allora un conflitto di tipo personale, un conflitto di tipo culturale e un conflitto che ha a che fare con il mistero della grazia, che ha a che fare con il modo in cui ci si pone nei confronti della gratuità, di un dono dato all’altro. Possiamo immaginare chi sia Abele agli occhi di Caino: venuto meno l’aspetto fraterno, Abele appare semplicemente come il rivale, colui che si appropria di ciò che potrebbe essere suo, colui che gode di una generosità di cui egli dovrebbe essere il destinatario in quanto primogenito.

Anche in questo caso si assiste ad una deformazione originaria: l’altro non è più semplicemente quello che è unito da un rapporto di sangue e da una appartenenza alla stessa terra, ma è l’avversario, il nemico; la conseguenza che ne deriva è la nascita di un’azione aggressiva che, eliminando l’ostacolo, spinge a diventare il beneficiario unico del bene desiderato.

Dietro questo evento si esprime anche una riflessione sui rapporti fra culture diverse o sul progresso culturale, una visione certo non molto ottimista; alla fine di questa storia si afferma il rappresentante della cultura contadina sul rappresentante della cultura pastorale attraverso l’uso della forza e l’annientamento fisico; il progresso arriva mediante l’annullamento dell’altro; non dunque la conservazione e la valorizzazione della differenza, ma la cancellazione violenta, la soppressione, l’annullamento delle differenze.

Anche questo peccato, che si potrebbe definire anch’esso originale, può servire come modello esemplare, perché indica una delle radici che è l’invidia nei confronti del fratello. Da qui proviene quel processo di deformazione sentimentale dell’altro che può portare alla violenza, salvo poi scoprire alla fine che ciò non rappresenta il divenire l’erede del bene e della generosità di Dio, ma inevitabilmente porta alla perdizione e alla perdita di tutto (tu sarai vagabondo e fuggiasco sulla terra: 4,12).

Questa violenza originaria si espande sino a uno dei figli di Caino, Lamec, in un crescendo sproporzionato di colpa e vendetta: «Sì, io ho ucciso un uomo perché mi ha ferito, e un giovane perché mi ha contuso. Se Caino sarà vendicato sette volte, Lamec lo sarà settantasette volte» (4,23-24). Ma il cammino della violenza continua fino ad arrivare a 6,11: la terra era corrotta davanti a Dio; la terra era piena di violenza. Ecco dunque il primo grande peccato sociale: la violenza.

c) Il peccato del figlio di Noè è descritto in 9,20-25: Noè, che era agricoltore, cominciò a piantare la vigna e bevve del vino; s'inebriò e si denudò in mezzo alla sua tenda. Cam, padre di Canaan, vide la nudità di suo padre e andò a dirlo, fuori, ai suoi fratelli. Ma Sem e Iafet presero il suo mantello, se lo misero insieme sulle spalle e, camminando all'indietro, coprirono la nudità del loro padre. Siccome avevano il viso rivolto dalla parte opposta, non videro la nudità del loro padre. Quando Noè si svegliò dalla sua ebbrezza, seppe quello che gli aveva fatto il figlio minore e disse: «Maledetto Canaan! Sia servo dei servi dei suoi fratelli!».

Anche questo racconto appartiene ai testi di origine ed ha a che fare con la paternità, con la scoperta dei limiti della paternità, con la scoperta che il padre non è perfetto, non è Dio. La grande questione è, dunque, come reagire alla scoperta dell’errore, dei limiti, della fragilità del padre; il figlio si trova di fronte la nudità del padre, e non soltanto in senso fisico. La prima reazione è quella della mancanza di rispetto, dell’irrisione e del tentativo di fare di questo atteggiamento irrispettoso la legge comune dei fratelli, cercare di renderli complici nel disprezzo della debolezza del padre. Al rapporto che in seguito verrà caratterizzato dal termine “onore” (onora il padre), si contrappone il disprezzo, non l’aggressione ma il rifiuto della dignità e la perdita di rispetto.

Qui avviene la divisione tra i fratelli che ha come conseguenza la loro diversa avventura: benedizione e maledizione. Lo schema è molto semplice e indica uno dei temi originari perché è in questione il modo di diventare uomo. Il tipo di rapporto in relazione a Dio, al fratello, al padre: questi i passaggi inevitabili per la realizzazione della propria identità a immagine e somiglianza di Dio.

d) Il quarto grande peccato è narrato nel cap. 11: Tutta la terra parlava la stessa lingua e usava le stesse parole. Dirigendosi verso l'Oriente, gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Scinear, e là si stanziarono. Si dissero l'un l'altro: «Venite, facciamo dei mattoni cotti con il fuoco!» Essi adoperarono mattoni anziché pietre, e bitume invece di calce. Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre la cui cima giunga fino al cielo; acquistiamoci fama, affinché non siamo dispersi sulla faccia di tutta la terra».

Qui l’umanità ha progettato un mondo caratterizzato da una unità culturale, da una sola lingua, da una stessa economia, il tutto orientato verso un’impresa ai confini della divinità. Ed è proprio qui che interviene la decisione di Dio di frantumare l’unità utilizzata in quel modo; si tratta della volontà di condannare il peccato nella sua dimensione sociale, cioè l’omologazione della società e della cultura di massa, del numero e dei meccanismi del sistema economico, tutto orientato ad un’opera che dovrebbe arrivare a divinizzare il sistema stesso.

L’ultima parola però non è quella del peccato, bensì quella del racconto di una grazia, di una generosità di Dio più grande delle rivolte, più grande delle incomprensioni.

Tutti i racconti di Genesi 1-11 sono una celebrazione, non trionfalistica, del bene e della parola che, attraverso il fallimento, il dolore che ne consegue, le lacerazioni che ne derivano, permette di attraversare e di continuare la storia e l’avventura umana nella memoria degli ideali ritenuti sempre validi e proiettati come il fine di un cammino.

 

Conversazione tenuta presso la Fondazione Serughetti La Porta il 18 ottobre 1999

Testo non rivisto dall’Autore


 

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